"Il Viandante sul mare di nebbia"
Quadro del 1818 di Caspar David Friedrich (1774-1840)
fonte:
Wikimedia Commons
Il viandante - nel mondo mediteranno e in quello tedesco:
Wanderer, Wandern, Wanderung sono
parole molto importanti per la storia del grande immaginario romantico
tedesco. Il "viandante", nella nostra mentalità latina è sempre stato
colui che transita da un luogo all'altro, da una collettività
all'altra, consapevole che la casa, il gruppo sociale ben identificato
sono gli ambiti che gli competono, che sente suoi ed in cui si
riconosce. Egli è legato affettivamente alla famiglia, alla casa degli
avi, alla terra che lavora, sia essa sua o non lo sia; il cammino è un
viaggio, da programmare e compiere nel più breve tempo possibile
perché ostico e talvolta pericoloso; riveste carattere episodico e
tradizionale - ad esempio, l'abitudine millenaria alla transumanza
delle antiche civiltà pastorali. E il viaggio, quando è conseguenza
dell'imperativo della fame, genera angoscia, diventa trauma,
dilacerazione; diviene il dolore degli emigranti che, con poca o
nessuna attenzione per le nuove realtà che li circondano, cercano di
ricostruire luoghi e collettività il più possibile vicini a quelli che
hanno dovuto abbandonare.
Ben differente è invece la connotazione auratica che la parola
"Wanderer", viandante, assume nelle terre di lingua tedesca. Qui, chi
segue un cammino non si dirige verso qualcosa di connotabile
fisicamente, verso un "luogo" reale, tangibile; al contrario, egli è
un avventuriero dello spirito, un essere che va alla ricerca di sé
stesso, o meglio dell'indefinibile, di ciò di cui una lontana eco del
proprio animo rende certi dell'esistenza, ma che sfugge ad ogni più
rigorosa disamina razionale. I pellegrini e i Clerici vagantes che
solcavano l'Europa delle prime ere cristiane: ecco il referente, il
misticismo universalistico di chi fa della "Wanderung", quasi sempre a
piedi, quasi mai a cavallo, il fine e non il mezzo; di chi giace per
una notte sotto un riparo di fortuna, o offerto da uno stanziale
ospitale, ben sapendo che ciò non è, nè è desiderato, per sempre; che
il giorno successivo il cammino dovrà riprendere, lungo prati verdi,
colli boscosi, radi villaggi annunciati da campanili appuntiti, sotto
cieli sempre mossi, sempre spazzati dal vento, talvolta plumbei ed
ostili; talvolta in compagnia, ma più spesso da soli.
Il viandante - tra Goethe e il romanticismo:
Il Wanderer, l'uomo in cammino con bastone e mantello che cerca sé
stesso, esiste e vive dunque immerso, congiunto alla natura. Ma non
necessariamente si tratta di una natura ostile; al contrario, essa può
anche essere il campo in cui si esprimono e si realizzano i disegni
del Divino. Così la concepisce Klopstock, cantore di una vitalità
essenziale, profonda, in cui anche il tuono, la folgore, devono essere
ammirati e capiti; perché capire ed ammirare la folgore sarà capire ed
ammirare Dio.
Sulla stessa prospettiva, ma più lontano da una visione personale
cristiana e allo stesso tempo più vicino ad un panteismo cosmico,
pagano ed anche olimpico, si colloca Goethe.
Goethe, la cui opera è come poche ricca di Wanderung; è un viandante
Guglielmo Meister, che, nella "Theatralische Sendung" (La vocazione
teatrale) rinuncia alla sicurezza borghese per seguire l'imperativo
della sua passione interiore ed una compagnia di squattrinati artisti
girovaghi; per incontrare poi, nei "Lehrjahre" (Anni di apprendistato),
quell'imperativo - "Ricordati di vivere!" - che rammenta la necessità
ed il diritto all'entusiasmo, allo sguardo infantile, meravigliato e
divertito sul mondo e sugli uomini anche da parte di chi non è stato
mai o non è più Wanderer, e nel benessere borghese ci vive
gratificato. Molte sono le liriche, nella poesia goethiana, ispirate
alla Wanderung; indimenticabile e commovente la quiete religiosa
emanata dai pochi versi che compongono il "Wanderers Nachtlied".
Su tutte le vette è silenzio,
dalle cime degli alberi odi
appena un sospiro.
Gli uccellini tacciano nel bosco.
Attendi, solo: presto riposerai anche tu.
Sguardo infantile, meraviglia, e allegria; talvolta
anche rifiuto dell'universo limitato ed organizzato nella
quotidianità; ecco alcune caratteristiche che possono perciò
contraddistinguere il Wanderer romantico. Le incontriamo in "Aus dem
Leben eines Taugenichts" (Vita di un perdigiorno) di Eichendorff, dove
il protagonista canta:
Dio vuole dimostrare il suo favore a chi
manda per il vasto mondo,
Egli vuole mostrare le sue meraviglie
Sui monti, nel bosco, al fiume, nei campi.
Lo stesso spirito informa anche il primo Lied del
ciclo "Die Schöne Müllerin" (La bella molinara) di Müller, musicato da
Schubert. Questa lirica è diventata una vera e propria canzone
popolare.
Ma il cammino esistenziale del Wanderer può anche condurre ad un esito
infausto; e questo comincia quando il movimento non è più essenziale a
se stesso ma diventa una tensione verso qualcosa, una ricerca
esteriore; "Dove tu non sei, là è la felicità", recita la lirica Der
Wanderer di Schmidt. Si compie quando la volontà di solitudine, di
"Einsamkeit" prende il sopravvento sulla necessità e sul desiderio di
socializzare. "Chi solitudine sceglie, ben presto solo sarà", canta il
vecchio arpista nella "Theatralische Sendung"; l'uomo, essere sociale,
riesce ad espandere e ad espandere tutte le sue potenzialità, ad
esistere totalmente solo vivendo nel sociale; andando incontro agli
altri, parlando il loro linguaggio. Rinunziare al mondo, chiudersi
totalmente nell'individualità, significa rinunziare ad una parte di
sé; e la dilacerazione (Zerrissenheit) che ne consegue apre il baratro
dell'ipocondria, della schizoidia, della follia, scelta e/o destino
tragico di molte importanti figure artistiche dell'Ottocento
romantico. Goethe esemplifica bene questi stati d'animo in uno dei
suoi inni più belli: "Harzreise im Winter" (Viaggio invernale nello Harz).
Nella macchia il sentiero si perde,
dietro i suoi passi
si chiudono di colpo gli arbusti,
si rialzano l'erbe,
l'inghiotte la solitudine. (...)
Dapprima spregiato, or spregiatore,
segretamente, in inetto
amore di sé,
il proprio valore consuma.
Anche a questa infausta avventura dello spirito
spetta una Wanderung privilegiata: è la "Winterreise" (Viaggio
d'inverno), ciclo liederistico ancora di Müller e musicato da
Schubert. La natura, da madre amorevole si è qui fatta strega e
matrigna; il paesaggio invernale, bianco e gelido, che accoglie nella
monotonia i passi del protagonista, che fugge da una wertheriana
delusione amorosa, non promette più calore ne' primavera. Il tempo si
annulla; non esiste una sequenza narrativa, non esiste più il passato
ne' il futuro, ma solo un disperato, eterno presente. Esiste solo
un'amarissima riflessione sulla crudeltà ed ostilità umana, in uno
spazio uguale ed illimitato che sprofonda in se stesso; l'innavicinabilità
alla comunità degli uomini, o più generalmente dei viventi, da cui il
protagonista si esclude e si sente escluso; e la scelta, nell'ultimo
Lied, di condividere il cammino con un altro reietto, un vecchio
mendicante suonatore di organetto, troppo simile all'arpista di
Goethe. Raramente la musica, in tutta la sua storia, ha conosciuto
note tanto tragiche, agghiaccianti quanto quelle con cui Schubert ha
saputo magistralmente rivestire la "Winterreise".
Dopo il romanticismo:
Ma, con il progredire dell'Ottocento, il mondo germanico diviene
sempre meno adatto alla Wanderung. La ricerca spirituale individuale
non trova più posto in un sistema di vita dove l'operosità è
finalizzata esclusivamente al profitto ed al dominio sulla natura;
dove oggetti e comportamenti vengono standardizzati nel gusto
Biedermeier; dove l'unico tipo di analisi conoscitiva cui viene data
credibilità è quella scientifica. Goethe e Müller descrivevano uomini
che si chiudevano dei confronti del mondo, ora si può assistere ad un
mondo che si chiude nei confronti dell'individualità.
La Wanderung viene relegata ad uno spazio circoscritto, lontano dalla
vita quotidiana; quello della solenne liturgia wagneriana, che celebra
sé stessa ed il popolo tedesco. E' un mondo onirico, mitologico, ma
anche necessariamente artificiale, perché scenico. Così Wotan e
Sigfrido sono Wanderer; così anche "l'Olandese Volante" e Kundry, Ebreo
errante al femminile in "Parsifal", per i quali la Wanderung non è più
una scelta o addirittura un premio divino, bensì la più atroce delle
condanne.
La produttività grande borghese richiede ormai figure ed imprese
monolitiche, ben cementate alla terra; come la mitica casa dei
Buddenbrook, a Lubecca, descritta da Thomas Mann. La stasi e non più
il movimento, il lasciarsi andare alla regolarità quotidiana sotto un
tetto accogliente sono la seduzione, da cui è impossibile fuggire
anche quando odora di morte. Seduzione cui cede Giovanni Castorp in
"Der Zauberberg" (La montagna incantata), quando, raggiunto il
sanatorio di Davos in Svizzera per visitare suo cugino, ancora
lievemente malato, non riesce più a staccarsene per alcuni anni,
venendone poi strappato solo allo scoppio della Grande Guerra.
La staticità monolitica è caratteristica propria dei regimi
totalitari; l'assurdo progetto hitleriano di Germania, un'Acropoli di
dimensioni colossali, progettata a Berlino e mai realizzata a causa
dello scoppio della guerra, esemplifica ciò degnamente. Niente di
imprevedibile, quindi, nel fatto che gli anni del nazionalsocialismo
non portino fortuna al Wanderer. Bisognerà aspettare il secondo
dopoguerra per vedere il premio Nobel attribuito ad un grande
scrittore che ha fatto della Wanderung la caratteristica costante dei
suoi personaggi, in Oriente come in Occidente alla ricerca della
propria identità spirituale che nasce ed esiste nella dialettica
eterna e pregnante tra interiorità ed esteriorità, tra Io e Mondo:
Hermann Hesse.