I tedeschi sapevano di quello che accadeva agli ebrei?
Il binario ferroviario che conduceva
all'entrata del campo di Auschwitz (Polonia).
Qui morirono circa 3 milioni di persone (soprattutto ebrei polacchi)
foto: Oleg Yunakov
Articolo di Luisa Martinelli. Con la testimonianza di
Brigitta Gehrts,
una signora tedesca che ha vissuto gli anni del nazismo.
Quella domanda...
C’è una domanda che non mi ha mai abbandonato da quando, tanto tempo fa, decisi di dedicarmi allo studio della letteratura e della cultura tedesca, una domanda per la quale ho cercato con insistenza una risposta: com’ è possibile che un popolo che ha prodotto opere di estrema elevatezza morale, ricche di sensibilità e di amore universale, lucide e rigorose nell’analizzare le debolezze ed i lati oscuri dell’uomo, abbia potuto generare e tollerare uno dei più gravi misfatti dell’umanità: lo sterminio del popolo ebraico durante il periodo del nazionalsocialismo?
Com’ è possibile che un popolo generoso, ligio ai propri doveri e rispettoso dei diritti altrui, che considera sacra l’amicizia ed ama la natura non abbia fatto nulla per impedire o contrastare avvenimenti che calpestavano i suoi principi? Allora forse è vero, come è stato detto spesso, che i cittadini tedeschi “non sapevano nulla”?
Cercavo una spiegazione e volevo una risposta sincera. Ho iniziato così ad
interrogare proprio loro, i tedeschi, ogni volta che mi sembrava di
raggiungere una confidenza tale da permettermi questa domanda. Volevo sinceramente capire, volevo sapere per comprendere, non certo per giudicare.
Tra i giovani, le risposte erano spesso evasive. “Noi non c’entriamo con
quel passato”, era la risposta più frequente da parte loro. “Non abbiamo
colpa di quello che è successo prima di noi.” ”Vogliamo guardare avanti, ci
interessano di più il nostro presente ed il nostro futuro.”
Quindi, per avvicinarmi alla “verità” dovevo cercare gli interlocutori fra i
diretti testimoni, dovevo parlare con gli anziani che avevano vissuto in
Germania in quel periodo, non con i loro figli e nipoti. Ci ho provato.
Qualcuno mi ha detto chiaramente di non voler parlare di questo problema, perché è impossibile capire e giudicare obiettivamente oggi la situazione di allora. Da persone anziane ho sentito storie toccanti, raccontate a volte con trepidazione e prudenza, a volte con ostentato distacco, ma quasi sempre con l’emozione di chi rivive sensazioni forti ed indelebili, dolorose o imbarazzanti. Ognuno conservava una sua personale esperienza del periodo nazista.
In queste storie ho avvertito spesso un senso di impotenza, la
consapevolezza di non aver avuto il coraggio di chiedere spiegazioni, la
tristezza e la rabbia di aver avuto paura, l’ammissione di aver sempre e
solo accettato ed ubbidito. “Ma sì, qualche notizia trapelava, giravano
delle voci, anche se non si poteva, non si osava chiedere nulla, ma
quello che realmente succedeva agli ebrei, no, no, quello non si
sapeva!”
La testimonianza di Brigitta Gehrts, una signora tedesca che ha vissuto
gli anni del nazismo:
Alcuni anni fa, durante una lunga permanenza in Germania, ho stretto
amicizia con un’anziana signora, ex insegnante di lingue straniere, colta ed
intelligente, interessata e partecipe alla vita culturale e sociale; quando
Hitler andò al potere aveva 11 anni. Anche a lei ho posto la mia solita
domanda: “Ma tu non sapevi nulla di quello che succedeva agli ebrei durante
il periodo nazista?” È rimasta per un po’ in silenzio e mentre già mi
pentivo di averglielo chiesto, mi ha pregata di lasciarle un po’ di tempo
per riflettere: voleva darmi una risposta sincera e ponderata, che mi
aiutasse meglio a capire.
Dopo qualche giorno mi ha consegnato la risposta
in una lunga lettera che conservo fra i ricordi più cari: vi si intuisce il
dolore del ricordo, lo sforzo di superare l’emotività con lucida analisi e
di spiegare o giustificare anche a se stessa l’accettazione passiva di
situazioni sconcertanti; ma c’è anche speranza e fiducia nella ragione umana
e generosità nel volere spartire con me la sua esperienza. Ecco il testo della
lettera:
1. Il comportamento della popolazione tedesca durante il periodo hitleriano
Oggi viene spesso sollevata la questione sul perché i tedeschi non abbiano agito diversamente fra il 1933 ed il 1945. Ecco il tentativo di una spiegazione.
Dobbiamo immaginarci un mondo completamente diverso, che non si può paragonare a quello di oggi. Per mezzo della televisione oggi ognuno è rapidamente informato su quello che succede in tutto il mondo.
Atteggiamenti che si affermano negli Stati Uniti si riscontrano ben presto anche in Europa. La contestazione degli studenti di Parigi nel 1968 si è estesa ben presto alle università tedesche. La possibilità di viaggiare contribuisce a stabilire rapidamente contatti.
Nella Germania in cui sono cresciuta (ho iniziato il liceo nel 1933) tutto questo non era possibile. Era difficile ottenere il passaporto, ancora più difficile cambiare i marchi in valuta straniera. Non c’era una stampa indipendente, tutti i giornali erano “sintonizzati sullo stesso canale", ossia riportavano la stessa opinione. La televisione era pressoché sconosciuta, il programma radiofonico era diretto esclusivamente dal Ministero della Propaganda (Goebbels come ministro).
Le cosiddette “riceventi popolari”, apparecchi radio a buon mercato, non offrivano la possibilità di ascoltare trasmissioni estere. Ciò era possibile solo con apparecchi più grandi e molto più costosi.
Già dall’inizio la Germania è stata quindi esposta ad un incessante stillicidio di propaganda nazista.
La fiducia che la grande maggioranza del nostro popolo riponeva in Hitler era enorme. Apparentemente riusciva a fare miracoli. La disoccupazione diminuiva, nessuno doveva più patire il freddo e la fame, si instaurava un sentimento di appartenenza. La parola d’ordine era: “Uno per tutti, tutti per uno.” Venivano raccolte con enorme successo grandi quantità di offerte, favorite in parte da una certa pressione. Ad esempio la cosiddetta offerta dell’Eintopf, il minestrone popolare: una domenica al mese si rinunciava a mangiare il consueto arrosto con patate e verdure e si preparava il più economico minestrone; il denaro risparmiato era destinato a questa offerta. Il portiere dei caseggiati andava con una lista nei vari
appartamenti e raccoglieva i soldi. Nessuno avrebbe osato escludersi dalla comunità.
Nei soli 6 anni fino allo scoppio della guerra si assistette ad una costante ascesa. Anche l’estero era sbalordito per i successi di Hitler. Altrimenti non si sarebbe arrivati all’accordo di Monaco.
Probabilmente non ci sarebbe stata una guerra se le grandi potenze avessero isolato Hitler. Nessuno lo ha disturbato nelle sue fantasticherie: il suo obiettivo era la “Grande Germania”.
I nazisti boicottano i negozi degli ebrei (1933),
sul cartello si legge: "Tedeschi! Difendetevi, non comprate dagli ebrei!"
foto: Bundesarchiv
2. I campi di concentramento
L’esistenza di tali campi era localmente nota. A Berlino si sapeva ad esempio che alle porte della città, a Oranienburg, c’era un campo di concentramento. I detenuti nella loro divisa di carcerati lavoravano nella zona della stazione di Oranienburg. Tuttavia noi credevamo che si trattasse di colpevoli di delitti gravi, ad esempio di tipo sessuale. Il normale cittadino berlinese non sapeva che lì erano detenuti anche dissidenti del regime, quindi prigionieri politici.
La pesante pena inflitta ai colpevoli di delitti sessuali e ad altri autentici criminali ebbe come conseguenza che Berlino e altre città erano molto sicure. Questo era un dato di fatto che la popolazione apprezzava molto. Si poteva camminare anche con il buio pesto nelle strade di Berlino senza temere di venire aggrediti. Completamente ignoto era il fatto che esistessero campi di sterminio come ad esempio Auschwitz. Nessuno aveva la minima idea dell’uccisione di ebrei nelle camere a gas. Si raccontava che gli ebrei che scomparivano da Berlino venissero sistemati in una particolare riserva nell’Est (a Warthegau) e per questo venissero portati lì con convogli. Supponevamo che lì lavorassero come agricoltori e quindi non esercitassero le loro originarie professioni di giudici, medici, artisti.
Dopo la guerra ho saputo che la sorella della mia insegnante di inglese (avevo fatto la maturità nel 1941 ed ero rimasta in contatto con la mia insegnante) era stata in carcere per “dichiarazioni disfattiste”. Era diplomata bibliotecaria, dirigeva la grande biblioteca Siemens nella cittadella Siemens a Berlino ed aveva espresso l’opinione che la guerra era ormai persa per la Germania. Questo fatto veniva punito gravemente come “demoralizzazione delle truppe” se qualcuno sporgeva denuncia. Io ho espresso lo stesso parere all’università di Berlino, ma non sono stata denunciata da nessuno.
Nell’autunno del 1944, dopo l’attentato a Hitler, il Prof. Schirmer, anglista, disse a me ed alle mie amiche che ora dovevamo essere prudenti nell’esprimere opinioni politiche, perché nel seminario erano state inserite delle spie. Da quel momento abbiamo parlato di politica solo nella stretta cerchia di amici.
Siccome i campi di concentramento erano tenuti ermeticamente chiusi verso il mondo esterno, alla popolazione non era noto in quali orribili condizioni vivessero i detenuti.
3. Quali tedeschi erano informati?
Si tratta di una percentuale ristretta. Erano quelli che erano a loro volta perseguitati in quanto socialdemocratici, comunisti o cattolici oppositori del regime. Chi si opponeva veniva imprigionato, fra questi c’erano noti pastori della chiesa evangelica o sacerdoti della chiesa cattolica, come ad esempio nella Renania, ed attivi membri del partito comunista o socialdemocratico.
Conosco una signora che abitava nel quartiere Dahlem di Berlino in stretta vicinanza con ricche famiglie ebree e sapeva che queste venivano deportate dalle SS dalla stazione di Berlino-Grunewald.
Qualcuno è riuscito ad emigrare dopo che gli era stato proibito di esercitare la professione. Altri ebrei, soprattutto quelli che nella prima guerra mondiale erano stati ufficiali tedeschi ed avevano ottenuto decorazioni al valore, escludevano che si potesse fare loro del male. Sono rimasti. Nemmeno per loro lo stato nazista ha avuto rispetto.
Molti colleghi di mio padre sono emigrati presto e sono sfuggiti così ad un triste destino. Paesi di destinazione erano particolarmente la Palestina, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna. Conoscendo bene la lingua inglese potevano lavorare come scienziati. Altri hanno dovuto cominciare da zero. La concessione d’asilo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna non comportava assolutamente assistenza sociale e sostegno finanziario – come è oggi in Germania. Ognuno doveva arrangiarsi per provvedere a se stesso.
4. La mia esperienza personale
Molte delle esperienze che ho vissuto personalmente erano certamente al di fuori della norma in quel periodo. Di tutta la scuola ero l’unica ad avere un apparecchio televisivo in casa, perché mio padre l’aveva avuto per motivi di ricerca. In tal modo ho potuto seguire in televisione le olimpiadi di Berlino nel 1936. Di tutto la scuola “Regina Luisa” a Berlino-Friedenau sono stata l’unica ad andare a Parigi con i miei genitori nel 1937. Un evento sensazionale. Mio padre, professore universitario di fisica, era lì come responsabile della televisione tedesca nel padiglione tedesco della fiera mondiale dal febbraio fino al novembre del 1937. La televisione tedesca a quel tempo era molto più avanzata di quella francese. Io stessa ho potuto fare i confronti.
5. Contatti all’estero
Come dipendente statale mio padre era sottomesso alle norme del governo tedesco. C’era una particolare disposizione che riguardava i rapporti con ebrei all’estero: per motivi di lavoro il contatto era permesso, a livello personale era proibito. Il viaggio a Parigi è stato possibile anche per mia madre e per me perché era stato fatto un accordo di viaggio fra la Francia e la Germania per il periodo della fiera mondiale: abbiamo potuto ottenere valuta estera e passaporti.
Con la nostra potente radio potevamo sentire anche la BBC di Londra (una trasmissione in lingua tedesca, informata molto obiettivamente) e radio Mosca. Poiché era proibito ascoltare trasmissioni nemiche, dopo la perdita del nostro appartamento nel 1943 abbiamo appeso una coperta di lana sopra la radio, perché i nostri vicini non potessero sentire. Dal Natale del 1942 sapevamo, grazie ad un soggiorno in Svizzera di mio padre per conferenze scientifiche, che la stampa e la radio in Germania ci mentivano. Sui giornali svizzeri appariva tutta la verità della sconfitta della VI armata tedesca sotto il generale Paulus a Stalingrado.
Quanto meglio oggi ci possiamo informare, lo dimostra il fatto che spesso io leggo su giornali stranieri cose che la stampa tedesca ci nasconde. A chi conosce bene le lingue straniere è data la possibilità di formarsi un quadro personale degli avvenimenti politici di questo mondo, oltre che degli sviluppi economici e culturali.
Luisa Martinelli, autrice di questo articolo, è docente di tedesco nella scuola superiore da molti anni, supervisore di tedesco presso la SSIS (scuola superiore di specializzazione per l’insegnamento superiore) di Rovereto (TN) e docente incaricata presso la facoltà di Mediazione Linguistica per le imprese e il turismo dell’Università di Trento. Per alcuni anni è stata lettrice ministeriale di italiano presso l’Università di Hannover. È autrice di numerosi articoli e libri di didattica del tedesco, collabora con riviste didattiche e con istituzioni pubbliche per la formazione degli insegnanti.