Bambini a Auschwitz, dopo la liberazione
fonte della foto:
ZDF
Tesi di laurea di Daniela Rita Mazzella.
Informazioni generali:
Titolo della tesi di laurea: Storie di bambini nei ghetti e nei lager. Due autobiografie a confronto.
Autrice: Daniela Rita Mazzella
Università: Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere, Università degli Studi di Napoli Federico II
Anno di presentazione della tesi: 2006
L'abstract della tesi:
L'idea del presente lavoro nasce dal desiderio di approfondire un argomento
che da sempre mi affascinava e allo stesso tempo mi spaventava:
l'antisemitismo e l'uso che ne fu fatto da Hitler con le sue tremende
conseguenze, con un occhio particolare verso quelle che furono forse le
vittime più indifese: i bambini.
Il lavoro inizia con un discorso generale sul fenomeno dell’antisemitismo
europeo, sfociato in Germania con l’ascesa del Terzo Reich: il sentimento di
ostilità nei confronti della popolazione ebraica, spiegato dapprima con
motivazioni religiose, poi di carattere economico e da secoli radicato nella
storia europea, nonostante i tentativi di emancipazione, raggiungeva qui il
suo massimo sviluppo, diventando “ideologia antisemita” soprattutto perché
si incontrava con una personalità, quella di Hitler appunto, che convinto
della superiorità del popolo germanico e della conseguente inferiorità di
quello ebraico, imperniò la sua ideologia e il suo programma di governo
sulla necessità di eliminare la popolazione ebraica.
Il particolare aspetto della vicenda ebraica che ho scelto di approfondire
riguarda la persecuzione dei bambini e dei giovani ebrei da parte del
nazismo: pochi quelli che riuscirono a superare, nascosti, il pericolo
hitleriano grazie a famiglie ariane “coraggiose” che si presero cura di loro
o a organizzazioni che si occuparono di trovare loro una sistemazione;
tanti, invece, quelli che furono catturati e mandati dapprima nei ghetti e
poi nei lager, dove erano i primi ad essere eliminati nelle camere a gas,
non potendo dare alcun contributo alla macchina da guerra tedesca.
Di fronte all’esperienza vissuta dagli ebrei durante la II Guerra Mondiale,
assume un’importanza essenziale la memoria di tali esperienze, soprattutto
la testimonianza di chi è riuscito a sopravvivere per dare voce anche ai
milioni di persone che invece non ci sono più. Per i sopravvissuti non è
stato sempre facile rielaborare e raccontare la loro esperienza:
specialmente nel dopoguerra essi erano divisi tra la necessità di raccontare
per liberarsi dall’orrore vissuto e l’impossibilità di riuscire a trovare
parole adeguate per esprimere tanta violenza e disumanità. E così la maggior
parte di essi ha impiegato molti anni per rielaborare il trauma vissuto e
per trovare la forza di raccontarlo. Un aspetto importante di simili memorie
è costituito dalla rappresentazione che ne viene fatta: le testimonianze dei
sopravvissuti da un lato hanno alimentato una ricca e autentica
memorialistica, dall’altro hanno anche contribuito alla formazione di un
certo tipo di finzione letteraria che nell’ambito della cosiddetta
“letteratura della Shoah” riveste comunque una particolare importanza,
perché laddove gli autentici testimoni tendono sempre più a scomparire a
causa di un evidente limite biologico, tale finzione rappresenta l’unico
mezzo attraverso il quale possiamo ancora accostarci a questo evento.
Di qui la scelta di analizzare due diversi tipi di testimonianze: da una
parte l’autobiografia di Cordelia Edvardson, una delle voci più
significative della memorialistica della Shoah, dall’altra l’opera di
Binjamin Wilkomirski che, pur essendo stato accolto in un primo momento come
esempio di questo tipo di scrittura, in realtà rientra nella tanto discussa
finzione letteraria.
Cordelia Edvardson è un ebrea tedesca nata a Monaco nel 1929, figlia della
scrittrice tedesca Elisabeth Langgässer. Nella sua autobiografia, tradotta
in tedesco con il titolo Gebranntes Kind sucht das Feuer, la scrittrice
mostra la sua condizione di doppia diversità, legata al fatto di essere
figlia illegittima e di avere un padre ebreo, e l’inevitabile sbocco della
sua diversità, il campo di concentramento. La sua opera mostra il percorso
di ricostruzione della sua identità di vittima della Shoah, un percorso che
significa anche una ricostruzione della sua vicenda familiare e del rapporto
con sua madre. La Edvardson mostra, nella sua autobiografia anche
l’altrettanto difficile esperienza del ritorno ad una vita normale: gli anni
trascorsi nella neutrale Svezia e il suo disagio provato a contatto con una
tranquillità che ella sente come falsa e innaturale e la conseguente
decisione di trasferirsi in Israele, dove la scrittrice, ritrovando le
proprie radici ebraiche, riesce anche a riconciliarsi con il suo passato e
con il suo rapporto con la madre.
Nel suo romanzo Bruchstücke. Aus einer Kindheit 1939 – 1948, pubblicato nel
1995, Binjamin Wilkomirski racconta la sua presunta esperienza di bambino
sopravvissuto a due campi di concentramento, portato in Svizzera e qui
adottato. Il libro riscosse enorme successo e l’autore fu innalzato a
rappresentante di tutti i bambini la cui infanzia era stata rubata dagli
orrori nazisti. Tuttavia poco dopo la pubblicazione di quest’opera alcune
rivelazioni portarono alla scoperta che il vero nome dell’autore non era
Binjamin Wilkomirski bensì Bruno Grosjean, e che tale autobiografia era una
sua totale invenzione. Tale scoperta trasformò questo grande successo
letterario in uno scandalo e furono necessarie delle indagini per
ricostruire l’intera vicenda. Alcune di esse misero in evidenza la difficile
infanzia dell’autore nel cui gesto non ci sarebbe stato l’esplicito ed
esclusivo tentativo di ingannare il pubblico ma anche la necessità di
costruire un personaggio, “Binjamin Wilkomirski”, per osservare con distanza
la sua difficile esperienza di bambino sofferente. Di qui la sua scelta di
utilizzare lo sfondo estremo della Shoah come metafora della sua difficile
infanzia.
Si può facilmente intuire che non è facile mettere a confronto due
"autobiografie" tanto diverse, anche perché non si tratta semplicemente di
confrontare un’autentica testimonianza (quella della Edvardson) con un
esempio di finzione letteraria (quello di Wilkomirki): l’autobiografia di
Wilkomirski, per quanto sia un’invenzione, presenta molte più somiglianze
con la reale esperienza di Bruno Grosjean di quanto si possa immaginare. La
conclusione che si può trarre è che Bruno Grosjean, non riuscendo ad
elaborare la sua esperienza di figlio illegittimo, ci ha raccontato la sua
biografia non come essa è realmente documentata, ma piuttosto come lui l’ha
vissuta. In questo senso si possono cogliere delle somiglianze biografiche
tra Cordelia Edvardson e Bruno Grosjean, specialmente se consideriamo che
entrambi non hanno mai conosciuto la figura paterna ed hanno vissuto per un
periodo troppo breve della loro vita con la madre. Entrambi quindi sono
cresciuti in contesti familiari diversi da quelli tradizionali che non hanno
saputo dare loro il sostegno e la protezione indispensabili per lo sviluppo
di bambino.
L’apice di questa vicenda familiare è stata per la Edvardson l’esperienza
della deportazione, esperienza che è stata invece utilizzata,
strumentalizzata da Bruno Grosjean per raccontare la sua personale
sofferenza; entrambi a distanza di molti anni hanno scelto di narrare
attraverso l’autobiografia la loro vita che, anche se per motivi diversi,
hanno ugualmente definito “un insieme di cocci” tentando in questo modo di
ricostruirne l’unità.
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