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Berlin Alexanderplatz - un'intervista a Rainer Werner Fassbinder

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Rainer Werner Fassbinder (1945-1982)
Rainer Werner Fassbinder (1945-1982), in una foto del 1980
foto: Gorup de Besanez
Incontro, nel 1980, con Rainer Werner Fassbinder che parla del suo film "Berlin Alexanderplatz".

Intervista a cura di Myriam Muhm

Alcuni mesi fa, sul settimanale "Die Zeit" lei ha scritto che il romanzo "Berlin Alexanderplatz" era diventato tanto importante, per lei, da costituire una specie di filo conduttore della sua stessa vita, uno strumento di conoscenza del suo subconscio. La sua è una constatazione o qualcosa di più, un'affermazione di principio: l'eventuale opera d'arte nasce in queste condizioni, e non in altre?

"Il presupposto per un'opera d'arte consiste, secondo me, nel fatto che sia tale da costringere continuamente a inserire in essa la personale fantasia e la personale realtà di chi legge o guarda. Cioè che non si verifichi il semplice sprofondarsi in qualcosa, così da esserne solamente toccati, e imbevuti, bensì la costrizione a raccontare la propria realtà inserendola in ciò che si legge o vede".
E questo presupposto è valido anche per i suoi film?

"Non lo so. Devono deciderlo gli altri, Io posso solo sperare che sia così: fare film, per me, significa sempre cercare d'essere fedele a questo intento".

Che c'entra, con questo, un personaggio come il Franz Biberkopf di "Berlin Alexanderplatz", così lineare, semplice?

"Intanto, Franz è lineare solo superficialmente. In realtà è molto più complesso di quanto non sembri. E noi abbiamo cercato di raccontarlo rendendo più evidente questa sua interiore complessità".

La figura di Franz Biberkopf è sempre presente, in forma più o meno nascosta, nel suo cinema, come sinonimo di quello sfruttamento dei sentimenti che è il tema caratteristico dei suoi film. E non solo: questo Franz Biberkopf si inserisce anche nella tanta autobiografia, questa pure caratteristica di tutto il suo cinema...

"È che io penso che nella realtà soggettiva ci sia molta più verità oggettiva che non nel tentativo di essere, in un modo o nell'altro, 'oggettivi’: finché vorrò, come voglio, aderire alla verità, potrò solo girare l'unica che conosco".

Ritornando a "Berlin Alexanderplatz", soprattutto nel finale chi conosce il suo cinema ritrova il tentativo già presente in altri film, di spezzare le definizioni codificate di bene e male, facendo confluire il male nel bene, e viceversa. Che cos'è, forse una nascosta giustificazione di un periodo particolare della storia tedesca?

"No, tutt'altro. Il mio tentativo è quello di rendere il cittadino tedesco responsabile di ciò che è accaduto durante e prima dell'avvento del nazismo in Germania. No, io non descrivo la storia in senso fatalistico, piuttosto la descrivo come qualcosa che può venir modificato e influenzato dal singolo: il mio film mostra chiaramente che l'individuo è capace di manovrare la sua realtà, e che, in fin dei conti, è responsabile della storia come della realtà politica, in cui vive laddove invece finge spesso di essere solo testimone e vittima dei vari “colpi mancini del destino”. I tedeschi sono spesso portati a sposare quest’ottica: il nazismo, per esempio, sarebbe un incidente sul lavoro del percorso storico cui l'umanità è sottoposta. È assurdo: il Terzo Reich è la nostra storia, e riguarda lo spirito tedesco molto più da vicino di quanto non si voglia credere o ammettere".
Mi spieghi la scena in cui il venditore ambulante ebreo appare improvvisamente con la svastica sul braccio...

"Cominciamo col dire che è una scena che appartiene alla parte finale del film, quella cioè in cui si da più libero sfogo alla fantasia. Ma con questo non voglio assolutamente dire che è una cosa messa lì, tanto per giocare: è che io effettivamente penso che non c'è, in fondo, alcuna differenza tra l’essere e il non essere ebreo. Mi spiego: gli ebrei avrebbero potuto ribellarsi di più a ciò che stava accadendo dopo il '33, e se non l’hanno fatto è che perché si erano convinti che, essendo tedeschi e magari veterani della prima guerra mondiale, non sarebbe loro potuto succedere niente. Inoltre con quella scena io dò un’immagine a quella che è una mia convinzione: lo stato di Israele, nel suo sviluppo e nella sua struttura, ha alcune cose in comune con il nazionalsocialismo tedesco".

Insomma, il male deriva dal permissivismo dei buoni?

"No, non dico questo. Dico che è facile definire qualcosa o qualcuno "il male”, perché questo ci deresponsabilizza".

E si ritorna, in qualche modo, al suo discorso iniziale: le responsabilità detta storia riportate a una dimensione anche individuale. Lei indica il male : ha anche una sua ricetta, da proporre nei suoi film, per guarirlo. Come deve fare, o come fa eventualmente sullo schermo, l'individuo a sottrarsi personalmente al "male"?

"Io, come film maker, non posso dire a nessuno come cambiare la sua realtà. Posso solo mostrargli che si trova nella condizione di poterlo fare, e invito a farlo. Io spero che questo messaggio trasmesso anche in questo mio ultimo film venga recepito: Franz Biberkopf, ad esempio, è uno che non soggiace, non si conforma perché si rende conto che se lo facesse perderebbe totalmente la sua individualità".

Sebbene Klaude, il figlio di Alexander Döblin, autore del romanzo, si ostini nel non voler rilevare le differenze tra il libro e il film che lei ne ha tratto, queste differenze esistono, e riguardano alcune scene tra le più brutali del film...

"Sì, lo so, è vero: sono scene che non sono nel romanzo, il quale, però le contiene, in qualche modo, implicitamente".

Nel frattempo con il romanzo lei calca la mano in maniera infinitamente più negativa sui personaggi femminili...

"Sì, la spiegazione è semplice. La donna, o qualsiasi altro membro di una società, che viene da questa oppresso, può solo ribellarsi grazie a determinati meccanismi i quali non possono che essere, a loro volta, negativi. Voglio dire che le donne, per sopravvivere, devono usare mezzi sporchi, e immorali, il che è poi anche la nitida spiegazione della stessa oppressione che subiscono. Parlo della donna, ma potrei dire lo stesso degli ebrei o degli emigranti: il pubblico e la critica traggono spesso conclusioni sbagliate sui miei film, accusandomi in questo o in quel caso, di diffamare l'ebreo o l'emigrante, laddove io, chiudendo ogni volta questi personaggi in un preciso contesto, tento ogni volta di chiarire che questi personaggi si comportano in quel certo modo, negativo, e non possono che comportarsi cosi, perché vi sono costretti dalle circostanze esterne, dall’ambiente”.

Ma non c'è il pericolo che tutto ciò rimanga un po' nelle sue intenzioni mentre al pubblico arriva soltanto un discorso sulle donne, come sugli ebrei e sugli emigranti, che sembra ricalcare vecchi schemi?

"Mi auguro che non accada. E, a proposito dei miei personaggi femminili, in particolare, alcune fra le registe tedesche che più si occupano della questione femminile, come Helga Sanders, hanno detto che io sono l'unico regista che racconta la realtà delle donne e non le fa vedere unicamente come oggetti graziosi e gentili bensì come esseri umani in lotta per vivere e sopravvivere".

Lei ha affinità con qualche regista, e chi? E fino a che punto questo influisce sui suoi film?

"Posso parlare delle mie preferenze: amavo i film di Pasolini, Salò in particolare, e quell'autentico capolavoro di Visconti che è La caduta degli dei. Ma non riesco a riconoscere un influsso diretto di questi autori e di questi film nel mio cinema. I miei film contengono, è vero, citazioni per esempio di Godard, e in Berlin Alexanderplatz ci sono riferimenti al Salò di Pasolini, ma non è in questo citare che si rivela, se c'è stata, un'influenza di questi film sul mio cinema; se influenza c'è e c'è eventualmente stata, è più profonda e si rivela non nella citazione esplicita e cosciente, ma in quella involontaria dettata dal subconscio... Per un periodo della mia vita, sono stati fondamentali, per me, i film di Bunuel, e forse il mio lavoro di allora avrà risentito di Bunuel. Ma io non ne ero cosciente e non lo sono tuttora".

Nei suoi film lei fa un uso particolare della luce. Premesso quello che appare evidente, e cioè che l’illuminazione che lei da alle sue scene corrisponde raramente a un'esigenza o a una volontà di fare del naturalismo, sembra, nel suo cinema, che il massimo del chiarore voglia suggerire e corrispondere al massimo della negatività della storia che lei va raccontando...

"È vero. Questo vale tanto per questo Berlin Alexanderplatz quanto per Matrimonio di Maria Braun. In quest'ultimo film in particolare, la luce, all'inizio, gioca con i toni scuri, per poi diventare sempre più chiara, e questo si lega strettamente al fatto che il film racconta un periodo che va dal 1945 a quel 1954 in cui si è avuta la prima fase di chiarezza nella storia tedesca. Questa chiarezza io la racconto con il massimo della luminosità cui però corrisponde una mia posizione soggettiva, un mio giudizio assolutamente negativi: è negativo, lo ripeto, il mio rapporto con questo tipo di luminose certezze che nascondono troppe cose".

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